DIRITTO DI RESISTENZA E LIBERAZIONE NAZIONALE
Dalla stagione che registra la caduta del regime fascista, siamo abituati a sentire ricorrentemente due concetti: resistenza e liberazione nazionale.
Sono sinonimi oppure no, hanno lo stesso significato, e se non è così in quali termini sono distinguibili? Prendiamo le mosse dall’idea di resistenza, tra le due la più problematica. Quando nasce, e come si caratterizza? È faccenda del XX secolo, o ha precedenti?
Dalla stagione che registra la caduta del regime fascista, siamo abituati a sentire ricorrentemente due concetti: resistenza e liberazione nazionale.
Sono sinonimi oppure no, hanno lo stesso significato, e se non è così in quali termini sono distinguibili? Prendiamo le mosse dall’idea di resistenza, tra le due la più problematica. Quando nasce, e come si caratterizza? È faccenda del XX secolo, o ha precedenti?
Per cominciare a rispondere, occorre rifarsi alla nozione di giusnaturalismo, che peraltro può essere articolata – riassumo drasticamente – su due versanti: giusnaturalismo classico e medievale, giusnaturalismo moderno. Il concetto di giusnaturalismo postula, come dice la parola, una qualche forma di diritto naturale degli esseri umani, sia nei loro reciproci rapporti sia nei rapporti con la potestà civile, politica. In essenza, la dottrina del diritto naturale di impianto classico e medievale si coniuga al singolare e mette in conto essenzialmente un rapporto in termini di dovere, sia del governante sia del governato. La dottrina del giusnaturalismo moderno si coniuga al plurale, e privilegia essenzialmente un rapporto in termini di diritti, cioè di diritti individuali che sta alla potestà politica riconoscere come tali.
Va qui aggiunto che la presunzione del giusnaturalismo classico e medievale assume l’esistenza di una natura umana con suoi connotati di radice comunque divina, mentre la dottrina moderna, di formazione risalente al XVIII secolo, va letta piuttosto come una preparazione all’avvento del diritto positivo, cioè posto esclusivamente dal legislatore umano, come diritto tout court e che si esaurisce in tale dimensione.

E la resistenza? Senza risalire alla classicità, va detto che il Medio Evo europeo ha messo a punto una significativa dottrina del diritto alla resistenza. La premessa è chiara. Il potere politico non può tutto, non può decidere ad libitum. Ha limiti. Se tali limiti vengono superati, se tale superamento assume andamento ripetitivo, e non è dunque solo un eccesso una tantum e come tale prestamente riparabile, allora entra in campo il diritto alla resistenza. Ma chi decide che il caso di specie si sta configurando?
La resistenza, infatti, non può sboccare in rivolta, o addirittura in rivoluzione. Ha un senso solo se e nella misura in cui mira a ristabilire l’ordine sociale e politico turbato e vulnerato dalla potestà sovrana. E allora?

La risposta della civiltà medievale europea è la seguente. Sta al papato come livello di suprema istanza, sta all’autorità del Romano Pontefice, cioè alla auctoritas spirituale, vigilare a che la potestas temporale non vulneri i confini del diritto naturale inteso come dovere verso i sudditi. Sta al Papato, nel caso estremo, certificare che il diritto di resistenza dei sudditi, individui o gruppi sociali, si viene configurando e assume legittimità. E non v’è dubbio che questa divisione funzionale tra le due potestà è una delle acquisizioni più significative nel campo dell’esperienza istituzionale del Vecchio Continente. Ciò sottolineato, sta di fatto che la Riforma protestante prima, i crescenti processi di secolarizzazione successivamente, i Nuovi Mondi che entrano in gioco in una realtà ormai divenuta globale, tolgono larga parte dello spazio operativo all’azione di vigilanza e divieto della autorità pontificia romana.
E veniamo ora a noi, cioè all’Italia del XX secolo. Resistenza, dunque. E qui domandiamoci, per cominciare. Quando e come finisce il regime autoritario monopartitico fascista? È abbattuto dalla resistenza antifascista? Di diritto e di fatto, tale regime conclude la sua esistenza con la riunione del Gran Consiglio del Fascismo che il 25 luglio 1943 approva a larga maggioranza, diciannove voti a favore, un astenuto, otto contrari, l’ordine del giorno che, esaminata la situazione interna e internazionale nonché la condotta politica, oltre che militare, della guerra in corso (la seconda Guerra mondiale) sollecita, e ottiene, le dimissioni del Primo Ministro Benito Mussolini.
Va da sé, Mussolini non esce di scena, la guerra non finisce, e così verrà la Repubblica di Salò, nella parte di territorio nazionale ove insistono le truppe tedesche. In merito a tale argomento l’illustre storico Renzo De Felice riferisce quanto segue. Dopo la destituzione da Capo del Governo, il Duce è trasferito prima a Ponza, poi alla Maddalena, infine è confinato a Campo Imperatore.

La sua “liberazione” ad opera dei paracadutisti tedeschi prelude a due giorni di colloqui tra il despota Adolf Hitler e il Duce, il 14 e il 15 settembre 1943, e vi si affronta il tema della nascita di un nuovo Stato in Italia, antagonista del Regno d’Italia e quindi alleato con i tedeschi. Se tale Stato non nasce, l’Italia settentrionale è destinata a subire la sorte della Polonia, con tutte le tragiche conseguenze per la popolazione e il territorio. All’intimazione di Hitler – dice De Felice – Mussolini «si sarebbe piegato […] per motivazioni eminentemente patriottiche, accettando il progetto presentatogli dal Führer come un sacrificio per la difesa dell’Italia». Nasce così la Repubblica di Mussolini, che dal 1°dicembre successivo assumerà il nome ufficiale di Repubblica Sociale Italiana. Le sue truppe hanno il compito di affiancare le forze armate tedesche contro il nemico comune. Quali che siano le motivazioni di Mussolini, in concreto la subordinazione della sua Repubblica agli interessi e alle sorti della Germania nazional-socialista è nelle cose. Ed è così che viene intesa la situazione sia in sede interna sia in sede internazionale. A tale secondo livello, oltre la Germania nazista, solo Ungheria, Giappone, Bulgaria, Cecoslovacchia, Croazia riconoscono lo Stato di Salò. E qui entra in gioco il discorso del rapporto tra Resistenza e Liberazione nazionale. Chi sono i protagonisti di questi due passaggi storici, nel loro intreccio reale ed effettuale? Ho sviluppato una riflessione in tema di Resistenza nel mio volume Dittatura e Monarchia. L’Italia tra le due guerre (Pagine editore, Roma 2019). Qui mi limito a richiamare alcuni punti cruciali, ricorrendo sia all’acuta analisi sviluppata da Sergio Cotta, cattedratico universitario di Filosofia del diritto, presidente dell’Unione Internazionale Giuristi Cattolici, sia alle dense considerazioni suggerite da Alberto Zignani, generale di Corpo d’Armata, dal 1996 al 2001 Segretario Generale della Difesa e Direttore nazionale degli armamenti, poi Comandante Generale della Guardia di Finanza, figlio del Tenente Colonnello Goffredo Zignani, fucilato dai tedeschi, medaglia d’oro al valore militare alla memoria.
Ad avviso di Cotta, va intanto rilevato che «il contributo bellico “materiale” della Resistenza […] in verità non fu grande rispetto all’imponente dispiego di forze degli Alleati», e comunque «non decisivo». Circa il significato in termini di libertà, occorre precisare. Se per libertà si vuole intendere liberazione della parte di territorio nazionale occupata dai tedeschi, allora il discorso ha un certo senso. Ma se per libertà si vuole intendere un riferimento al valore di libertà, una Resistenza in nome della e delle libertà mortificate dal fascismo e dal suo autoritarismo, insomma una contrapposizione di “civiltà”, allora il discorso si fa più complesso. Esso infatti solleva la questione, «troppo sbrigativamente messa da parte, […] se e in qual senso si possa parlare di “civiltà” a proposito della dirigenza comunista, fedele allora, e poi per decenni, al modello leninista-stalinista sovietico» e al suo totalitarismo. Dunque, non è sufficiente essere antifascisti per accreditarsi come “difensori della libertà”. E ben si sa quanto a lungo la Resistenza, grazie alla pochezza delle forze politiche democratiche, sia stata monopolizzata dal mondo comunista italiano e dai suoi sodali.
Veniamo adesso al generale Zignani. Egli scrive che, pur nell’evidente quadro di difficoltà del momento, «le forze che il Governo regio poteva mettere in campo all’indomani dell’8 settembre erano di circa 500.000 uomini delle diverse Forze Armate», Esercito, Marina, Aeronautica. Senza dubbio, il loro armamento era spesso scarso, la loro dislocazione territoriale, entro e fuori i confini italiani, rendeva non sempre agevole il coordinamento, ma l’impegno del Regio governo è teso alla loro immediata partecipazione ai combattimenti.
In questo quadro, aggiunge inoltre Zignani, merita considerare anche quella vicenda altamente emblematica che è stata definita “Resistenza senz’armi”.

Il riferimento è a quel cospicuo numero di militari, valutati in oltre 650.000 che, catturati in Italia e all’estero, sono ristretti dai tedeschi nei campi di internamento (non di concentramento, per i quali valgono certe regole di diritto internazionale), ove le condizioni di esistenza sono pesantissime.
La Repubblica di Salò ritiene di poter reclutare tra questi internati un numero di unità tale da costituire almeno quattro divisioni, non foss’altro per ridimensionare in qualche modo la sudditanza alla Repubblica hitleriana, potendo così «rivendicare più legittimamente il suo carattere “nazionale”» nel contesto della lotta armata contro gli “invasori” anglosassoni.
La risposta degli internati è quasi del tutto negativa. Solo il due-tre per cento aderisce alla proposta. E Zignani aggiunge. Il significato morale e l’importanza politica di questa “Resistenza senz’armi” sono importantissimi. «Una Resistenza che trovò il suo punto di forza principale nel giuramento di fedeltà a suo tempo prestato al Re, come tantissimi resoconti confermano». Di più. «Una Resistenza che voleva significare che, sebbene lontani dall’Italia e privi di ogni informazione, quegli uomini sentivano che la loro Patria non era morta». Mio Padre, allora tenente colonnello medico in servizio permanente effettivo, catturato in Montenegro, è tra quanti mantengono fede al giuramento, “per il bene inseparabile del Re e della Patria”, e subisce l’internamento. Concorda Cotta, per il quale «solo l’1,03 per cento aderì alla Repubblica Sociale e molti di costoro, rientrati in Patria, disertarono raggiungendo spesso le file partigiane».

nel campo di Sandbostel
Per concludere. La Resistenza vede in Italia il suo nascimento già alla Magliana e a Porta San Paolo, in Roma, con i granatieri di Sardegna e i lancieri di Montebello il 9 e il 10 settembre 1943 e poi a Napoli, nel Cuneese, a Bari, non nasce contro il fascismo repubblicano, «non ancora sorto e tanto meno organizzato», è rivolta contro il tedesco, e quando e dove il fascismo repubblicano gli si associa è anche contro di esso. Ho già detto sul punto l’essenziale. Si può aggiungere che superare le diffidenze degli Alleati verso il Regno d’Italia non sarà impresa facile. E tuttavia, come sintetizza Cotta, lo sforzo è quello di mettere a punto un fronte «di tipo militare regolare, a forte sfondo patriottico risorgimentale antitedesco». Qui, pur faticosamente, Resistenza e liberazione nazionale trovano il loro punto di convergenza.

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di Domenico Fisichella
Professore ordinario di Dottrina dello Stato e di Scienza della Politica, ha insegnato nelle Università di Firenze, Roma Sapienza e Luiss.
Senatore per quattro legislature, ministro per i Beni culturali e ambientali, vicepresidente del Senato per dieci anni, membro della Commissione bicamerale per la riforma costituzionale, componente il Consiglio scientifico dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani per dodici anni, medaglia d’oro ai Benemeriti della Cultura, Scuola e Arte, editorialista per decenni di importanti quotidiani (Nazione, Tempo, Sole 24 Ore, Messaggero), suoi lavori sono tradotti in inglese, francese, spagnolo, portoghese, ungherese e rumeno.